Detesto i termini vincente, perdente, fallito da quando ho memoria critica, e l’inizio della mia memoria critica coincide con quei famigerati anni ’80 in cui il successo materiale (e con esso l’abuso dei succitati termini) era l’unica unità di misura con cui si pesava il valore di una vita. Tralasciando lo sport agonistico, dove vincere e perdere almeno hanno un valore quantificabile (anche se con molte ambiguità: io posso vincere una gara, ma cos’è che fa di me un vincente? Vincerne 2? 3? Chi può dirlo), in tutti gli altri contesti il termine vincente non può che essere incredibilmente restrittivo, o semplicemente soggettivo, rispetto alla complessità della realtà, ma anche della percezione di noi stessi e degli altri. Cos’è che ci fa essere vincenti? Il fatto di aver raggiunto degli obiettivi che ci eravamo prefissati? Ed è sufficiente? E il giorno dopo? Appunto, per essere dei vincenti bisognerebbe vincere sempre, e questo non è possibile, e si finisce allora schiavi di un circolo vizioso con un unica via d’uscita: la sconfitta.
Perchè ‘sta filippica? Boh, m’è tornato in mente una conversazione di qualche tempo fa. Consideriamola un’ode ai losers