Quattro giorni trascorsi in casa per colpa di un influenzetta mi sono stati utili per constatare ancora una volta che, a meno che non si abbia materialmente bisogno di manovrare macchine specifiche e non connesse alla rete, o che non si debba discutere vis-a-vis con un cliente, ormai c’è davvero pochissimo che costringa alla presenza fisica in ufficio.
Chiunque abbia avuto modo di lavorare in epoca pre-internet sa bene quali incredibili passi avanti sono stati fatti in dieci anni, e con quale velocità esponenziale se ne continuano a fare. Gli strumenti non mancano quindi, e probabilmente la grande maggioranza delle persone desidera davvero evitare non tanto il dover essere in ufficio, quanto il dover essere tutti i giorni nello stesso posto. Ma allora come mai non riusciamo a svincolarci dal luogo fisico di lavoro?
Qualcuno ritiene sia un problema di dimensione dell’azienda. Certo, una grande azienda può avere maggiori difficoltà ad organizzare il lavoro se tutti sono delocalizzati; ma è indubbio che questo problema affligge anche (se non di più) società di media-piccola dimensione.
Qualcuno pensa sia un problema di alfabetizzazione tecnologica. Certo, gli strumenti devono essere condivisi, altrimenti cade il concetto stesso di collaborazione remota. Ma queste resistenze sono spesso ben visibili anche in società medio-piccole fortemente net-savy.
Cos’è che manca allora per liberarci dal giogo della scrivania fisica? Molto probabilmente manca una cosa che si chiama predisposizione culturale all’innovazione, ovvero un sistema fatto da tre architravi ineludibili: organizzazione, fiducia/coraggio, e orientamento al risultato/obiettivo (le ultime due riassumibili probabilmente nel concetto esteso di meritocrazia). E mi pare di poter dire che la cultura italiana (aziendale e non solo) si basa esattamente sui tre architravi opposti (disorganizzazione, diffidenza, e orientamento al tempo di lavoro), che peraltro si annodano l’uno con l’altro in una terribile spirale viziosa.