Nel 2003, indispettito per la scarsa attenzione nei confronti di blogout, e in coda alla constatazione di una già evidente glamourizzazione del blogging, scrissi un post piuttosto acido. Qualche giorno dopo arrivò una lucida risposta di Mantellini, che, prendendo a prestito le tesi di World of Ends di Searls e Weinberger, scriveva:
“Continuiamo ad applicare le solite categorie di una comunicazione che discende da un centro e scivola verso gli ascoltatori mentre oggi la struttura e’ molto cambiata e scrivere un blog su Virgilio e’ ormai semplicemente una tautologia”
Con i miei tempi assorbii quella risposta e la feci mia, rimanendo comunque un po’ defilato dalla parte più modaiola e glitter della blogosfera, un po’ per distanza (il centro è sempre stato Milano), un po’ per convinzione, un po’ per timidezza.
Nel frattempo ho continuato a riflettere sul blogging italico, scribacchiando altre cose (1, 2 e 3) il cui tema più o meno è sempre stato il tentare di capire se non ci fosse effettivamente un problema di piramidalizzazione nella blogosfera, provocato da un approccio intrinsecamente e inevitabilmente italiano al mezzo.
Tutto questo non per fare un’apologia del mio pensiero, ma più che altro per dire che non si può, davvero non si può più fare di tutt’erba un fascio, e mescolare questioni diversissime fra loro in una visione tutta monodimensionale come quella fatta da Novecento o, peggio, da Marco Mazzei. Non dopo 5 o 6 anni di discussioni estenuanti e – quelle si – assolutamente autoreferenziali, sull’involucro della blogosfera.
Più di tre anni fa, quando mi chiedevo:
Cosa succederebbe se all’improvviso un virus impazzito rimescolasse tutti i titoli e tutti i domini dei milioni di blog esistenti in rete? La popolarità dei soli contenuti del dopo virus sarebbe coerente con la popolarità dei contenitori che li ospitavano prima?
non avevo ancora esperito vicende come quella di Sergio Sarnari e il mobilificio o BlackCat e la Carrefour, tanto per dire, dimostrazione evidente che ora, grazie anche a strumenti nuovi come twitter e friendfeed, le idee circolano molto più rapidamente e fluidamente.
A questo punto, se c’è ancora qualcuno che pensa che invitare trenta blogger (di cui io non faccio parte, tanto per dire) a parlare con Bernabè è una cosa che può avere un senso, va bene, chissenefrega. Lo facciano. Qual’è il vostro problema? Che pensate non serva? O che volevate esserci voi? Perchè se parliamo del primo caso, allora usate il vostro blog per proporre qualcosa di costruttivo, su possibili ipotesi di confronto fra aziende e blogger. Io ad esempio credo che sarebbe interessante ogni volta lanciare grandi sondaggi per scegliere venti persone per andare a discutere con Bernabè o Scott Jovane, ma è solo un’idea.
Ma su una cosa, invece, sono d’accordo. Il badge viola della blogfest (che io avevo ma solo in quanto parte dell’organizzazione di un barcamp) serve solo a scatenare stupide invidie. Io non mi sono sentito figo a poter entrare al Tiffany, sinceramente. Evitando questo genere di cose, forse non si darebbe neanche il là a discussioni noiose e trite, e si marcherebbe una differenza reale fra un sesto potere veramente orizzontale, ed altri mondi di nani e ballerine.
Rimane il fatto che la Blogfest (come altre situazioni) era aperta, si è passato il 95% del tempo tutti insieme al centro congressi, o divisi e mescolati nei vari ristoranti di Riva, e nessuno andava in giro con la scorta o con lo scettro. La casta è negli occhi di chi la vede, semmai ci sono meccanismi rete-mondo reale da modificare. Meglio allora fare proposte concrete per capire come massimizzare l’energia della conversazione globale.