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Il centrodestra e il mago di OZ

Cè un aspetto che mi ha colpito nella reazione dei notabili del centro destra dopo la sonora scoppola elettorale, e provo a spiegarlo.

Negli anni di sostanziale dominio politico e culturale del giro Bossi-Berlusconi (cioè fino a ieri), ci è stato fatto intendere che il centrosinistra non era in grado di ascoltare la “pancia del paese”. Ve lo ricordate, no? Dicevano che il centrosinistra era ancora legato agli schemi ideologici novecenteschi, che la realtà era cambiata, che i bisogni del paese profondo erano diversi da quel che dell’altro lato si credeva e si intendeva. Una cultura politica post-ideologica, ci si disse, dove i vecchi schieramenti destra-sinistra non contavano più, dove le ricette passavano per l’interpretazione dei “bisogni del popolo”. E giù con le ronde, col fascismo economico spacciato per liberismo, con il velinismo come risposta al precariato, eccetera.

Passano gli anni, e si arriva alle Elezioni Amministrative 2011. Le elezioni locali, come si sa, sono il miglior termometro politico per misurare i mutamenti sociali in atto e “in nuce”, e i risultati li conosciamo tutti. Cosa è successo? E’ cambiato il sentire delle viscere degli italiani? Forse. Ma è lecito però anche un altro pensiero, che mettiamo in forma di domanda: sarà mica che il centrodestra ha cercato di convincerci tutti che il nostro vicino voleva arrostire i musulmani e i gay, un po’ come quando la polizia cerca di farti confessare dicendoti che il tuo compare lo ha già fatto? Bene, il dubbio ce lo hanno fugato gli stessi notabili del centrodestra, che a caldo dopo le elezioni si sono preoccupati di dire immediatamente che i cittadini “si pentiranno della loro decisione” e che “non hanno capito le cose che sono state fatte”. Una reazione scomposta, e niente affatto post-ideologica. Anzi.

Ora però, come si suol dire, il re è nudo, l’omuncolo è uscito dal mascherone come nel Mago di OZ, e abbiamo toccato con mano che nelle realtà locali, quelle dove la vita vissuta è più vicina a chi gestisce le redini della democrazia, esiste un’idea ampiamente maggioritaria di tolleranza, di rispetto reciproco e di bisogno di pacificazione che è funzionale al miglioramento della qualità della vita, e non è invece buonismo d’accatto per garantirsi un’indulgenza. E il centrodestra ha di fronte a se una scelta: o cambia politica, in ossequio al progetto originario di avere sintonia con la pancia del paese, oppure continua con l’approccio ideologico di sempre.

Tre pezzi di stoffa

Se vent’anni fa mi avessero detto che un giorno avrei guardato la bandiera dell’Italia con un piccolo, quasi impercettibile fremito di orgoglio, non ci avrei creduto. Non sono mai stato nazionalista, ho sempre creduto nel superamento dei confini geografici, politici, culturali, di quelle pesanti pareti dentro cui il nostro provincialismo ha prosperato, e continua a prosperare a tutto vantaggio di pochi speculatori. Ma ho da tempo fatto pace con le mie radici, e da tempo vivo una stancante condizione di amore per il paese in cui sono nato e cresciuto, misto a odio per una scatola di latta e cartone da cui non si riesce ad uscire (per incapacità, o forse per volontà).

È per questo che non guardo più con ostilità quei tre pezzi di stoffa verticali colorati, ed è per questo che ho ancora una pallida speranza di poter vedere gli abitanti di questo paese capire, una volta per tutte, che elevare a monarca la rappresentazione simbolica di tutte le nostre peggiori inclinazioni soltanto per giustificare la nostra indolenza, significa distruggere la nostra stessa vita quotidiana. Svegliamoci, santiddio. Altrimenti fra altri 150 anni non solo non ci sarà più l’italia, ma ci saremo divorati il fegato l’un l’altro.

La Lega ha strappato il sol dell’avvenire

E così anche oggi, come in qualunque day after di qualunque elezione, si sgranano i rosari delle percentuali. Qualcuno cerca ragioni di esultanza, altri cercano capri espiatori, altri cercano sostegni numerici alle riscosse politiche. Ma ci sono alcune verità che sono sotto gli occhi di chiunque decida di non serrarli: il PD campicchia, Il PDL cala parecchio al Nord, ma soprattutto la Lega ha fatto il botto in più di mezza Italia. E il tema del referendum sulla persona Berlusconi rimane sullo sfondo, un po’ sfuocato.

Il premio al localismo della Lega ci dice che la gente non ne può più dei referendum su Berlusconi, perchè non è lì il problema. Queste migliaia di persone delle province lombarde, venete, piemontesi, emiliane vanno in massa a votare un partito che ha un progetto chiaro in mente, e che parla delle loro case, degli angoli delle loro strade, lì dove la politica è scomparsa da tempo, dove certamente la televisione mistificatrice del cinismo Berlusconiano nutre la paura di tutto ciò che è “altro”, restringe gli orizzonti e concentra l’attenzione sull’eterno oggi, ma altrettanto certamente c’è qualcuno che tutti i giorni si fa il mazzo per riempire il vuoto dei sogni, raccontando credibili prospettive a lungo termine di piccoli mondi migliori, fatti di piccole comunità autosufficienti al riparo dalla globalizzazione e dalla violenza del mondo marcio, brutto e cattivo.

Certo, è probabile che Lega e PDL siano al punto di equilibrio per cui da ora non potranno che mangiarsi l’un l’altro. Ma se dall’altra parte non ricominciamo in fretta a dipingere chiare alternative possibili e realistiche, che tengano conto con serietà dei VERI bisogni, delle VERE paure, e del VERO vocabolario di strada della VERA gente, allora non rimarrà che il deserto. Altro che sol dell’avvenire.

Giornalismo e Betacam da 20Kg

Ho finito da poco di ascoltare, in diretta su Sky, la puntuale ricostruzione cronologica da parte di Berlusconi degli eventi del famigerato giorno di presentazione delle liste. Al di là della ricostruzione vera e propria, puntuale e precisa ma non per questo necessariamente vera, durante le insignificanti domande di alcuni giornalisti, un individuo ha protestato vivamente per ragioni non chiare poichè l’audio ambiente non veniva ripreso dalla telecamera di Sky. Si sono sentiti chiaramente invece gli insulti di Berlusconi che lo trattava come un mentecatto provocatore indegno di avere il microfono e la parola. Non si sa quindi se si trattava di un giornalista a cui non è stata data la parola, o un semplice cittadino indignato che protestava ad alta voce.

Ne è seguita una gazzarra proseguita anche al termine della conferenza stampa, il cui contenuto era assolutamente inintellegibile dalla trasmissione su Sky, poichè l’operatore attestato su cavalletto con la sua Telecamera Betacam da 20Kg si è potuto limitare a riprendere un totale con una selva di teste fra cui La Russa, Verdini, il giornalista accusato di essere un disturbatore, e una serie di telecamere grandi e piccole che riprendevano ciò che potevano per documentare la situazione.

Mentre assistevo a questo nulla trasmesso da Sky, riflettevo sul fatto che le esigenze qualitative di un grande network televisivo non si conciliano con la copertura integrale di uno spazio in cui si svolge un evento (eccetto per le partite di calcio dove le 10/12 telecamere presenti sono in grado di documentare tutto ciò che accade sul campo e fuori), con il risultato che la lettura offerta non coinciderà mai con quanto è davvero accaduto. In questo caso, come in molti altri, non abbiamo avuto risposte a varie domande importanti: chi era l’uomo che protestava? Cosa voleva dire? Quanti giornalisti erano presenti in sala? Ce n’erano altri che avrebbero voluto parlare e non gli è stato consentito?

Ecco, non potendo per ovvie ragioni coprire ogni conferenza stampa, ogni manifestazione, o ogni altro evento con le 10 telecamere utilizzate per le partite di calcio, viene da pensare che una selva di handycam in grado di coprire efficacemente uno spazio, pur non garantendo la qualità coerente con le esigenze di un network, potrebbero raccontare molto più efficacemente un evento dai vari punti di vista necessari per avere un quadro chiaro della situazione.

Sono certo che frammenti audiovideo di quello che è accaduto durante questa conferenza stampa saranno presto disponibili su youtube (di camere di piccolo/medio formato più vicine al luogo della discussione ce n’erano diverse), e non ci vorrà molto a scoprire chi era e cosa voleva quel giornalista infuriato, ma si tratterà per l’appunto di frammenti, che dalla grande massa di persone verranno raccolti in modo ugualmente decontestualizzato, come se appartenessero a eventi diversi.

Altro effetto di informazione (e di giornalismo) produrrebbe invece una testata autorevole che segua gli eventi piccoli e grandi con tre o quattro videomaker rapidi e leggeri, in grado di garantire una copertura “a zona” per fornire al pubblico la lettura completa di ciò che avviene durante un evento, invece che con una pesantissima telecamera fissata su un cavalletto e collegata all’audio istituzionale.

Raccontiamo le storie vere. O moriremo di Brunetta.

Ho sempre amato le crude asperità racchiuse in un guscio di intelligente equilibrio. Sarà per questo che ho così tanto apprezzato questo post di Fulvia De Feo (che prima non conoscevo, adesso sì, e va bene così), fatto di parole morbidamente taglienti, calde e vissute.

Fulvia prende al volo lo spunto della vignetta di Biani contro Brunetta, che tanto ha fatto discutere, e lo fa lavorando di cesello su quel cuneo invisibile ma enorme che c’è fra il mondo reale e la vignetta di Biani, quel cuneo che ha fatto gridare allo scandalo perchè è un urlo improvviso emerso da sotto un tappeto di omertà, comodo silenzio, e semplificazione demagogica.

Io volevo solo dire che sono stanca. Che l’entusiasmo, la voglia di fare bene il mio mestiere, mi sta diventando una specie di ricordo, e che non c’è sensazione più amara di questa. Ti perdi, proprio, schiacciata in un’immagine di te che non è tua e a cui, alla fine, ti pieghi per stanchezza e perché sopravvivere si deve. Ti va a pezzi l’identità, davvero. Non si fida di noi, lo Stato? Evvabbe’, faccia come crede. Ci arrangeremo. Ci daremo come obiettivo l’arrivare a fine giornata e al diavolo il resto. Chi cavolo ce lo fa fare.

Figurati: ci sono scuole dove non possiamo manco maneggiare la fotocopiatrice, ché si vede che hanno paura che gli rubiamo la carta. Non ci è permesso toccarla, dico davvero. E una dovrebbe preparare attività, dare materiale ai ragazzi e proporre cose facendosi precedere da richieste scritte, firmate, controfirmate, giustificate e motivate e avanzate con una settimana di anticipo? Per cosa? Perché le è venuto in mente un modo per fare imparare meglio qualcosa ai ragazzi e quindi le servono 15 fotocopie? E deve dimostrare che non li vuole rubare, i 15 fogli di carta?

Capito qual’è il punto? Beh, ho una storia da raccontare anche io.

Ho un amica quarantenne che da quest’anno ha iniziato l’insegnamento dell’educazione artistica nelle scuole medie, dopo anni di pazienza burocratica. Insegna in 8 classi di due difficilissime scuole dell’hinterland romano. Ha a che fare tutti i giorni con bambini difficili, cresciuti in ambienti insani, dove il problema non è far capire la bellezza di un pastello colorato, ma far capire la necessità di non picchiare altri ragazzini e urlare oscenità alla preside, mentre una bambina cinese chiude gli occhi e piange perchè non capisce un accidenti. La mia amica ogni mattina si alza all’alba e va a combattere per la sua vita, per portare due soldi a casa insegnando cose che ama mentre intorno qualcuno mette a ferro e fuoco le aule, e gli insegnanti più anziani le insegnano tattiche di sopravvivenza e trucchi del mestiere. E tutto questo prima ancora di capire quali saranno gli effetti della stretta. E allora? Come la riassumiamo questa vicenda? Come la metabolizziamo per farla rientrare in uno dei tre quattro schemi con cui banalizziamo tutto per capitalizzare sulle paure altrui?

A me non è piaciuta la vignetta di Biani, perchè mi è sembrata poco decodificabile e quindi facilmente manipolabile da chi ha il coltello dalla parte del manico (e sappiamo chi ce l’ha). Ma quell’urlo rabbioso e poco intelligente è lo specchio compresso di un mondo enorme e complicato, fatto di persone vive, ognuna di esse fatta di storie a loro volta dense e complicate, che non si può liquidare con un atteggiamento buono solo per un titolo di giornale. Bisogna approfondire e capire, cambiare e aggiustare con metodo e pazienza, senza preconcetti e senza odi di casta e di classe. E per farlo, bisogna raccontare le storie, raccontarne tante, invadere ogni pertugio (mediale e non) di storie vere di persone vere.

E’ dentro di noi.

Se ci soffermiamo a pensare all’idea di giusto e sbagliato che abbiamo coltivato fin da bambini, ci accorgiamo di percepire questa dicotomia su due livelli distinti: c’è il giusto/sbagliato in senso assoluto, poi c’è il giusto/sbagliato della pratica quotidiana, del sentire istintivo, quasi rassegnato. A differenza dei protestanti e della loro spietata morale interiore, l’italiano cresciuto nel triangolo chiesa, monarchia e mafia ha costruito la sua cultura intorno al concetto di peccato e perdono, esasperando il doppio passo fino alla sovrapposizione. L’equazione finale ci dice che l’italiano medio pontifica sui grandi valori (il giusto e lo sbagliato assoluti), ma è autorizzato a sbagliare perchè dio lo perdonerà, ma solo in misura della sua potenza e ricchezza (il giusto e lo sbagliato del quotidiano).

Ecco perchè, in un solo paese, riusciamo ad accettare l’esistenza di un presidente del consiglio pluri-inquisito che appena eletto fa sfornare una legge per bloccare i suoi processi, la condanna-farsa per le vicende di Bolzaneto, e l’accanimento cattolico nei confronti di Eluana, la donna in coma da 16 anni i cui genitori vorrebbero staccare l’alimentazione forzata. Ma anche un paese in cui l’albanese e il rom sono sporchi e cattivi e vanno puniti “a prescindere”, tranne Elvan che mi imbianca casa e Ana che mi fa le pulizie. Tu potrai anche essere laico, socialista, ateo, ma se guardi in fondo alla tua coscienza, anche tu troverai tracce di questo cancro.

Contro l’assuefazione alle balle

Michele Serra su Repubblica (via Wittgenstein):

“Comunque la si pensi, è fuori di dubbio che “dieci milioni di firme raccolte ai gazebo” (un quinto della popolazione italiana, compresi i neonati, i vegliardi, i carcerati e gli ammalati) sono una enorme palla. Una frottola, una bugia, una menzogna, una panzana, una falsificazione, una truffa, un imbroglio, una frode, una bubbola. Lo sanno tutti, Berlusconi per primo, i suoi portavoce, i suoi direttori di giornale, i suoi yes-men televisivi. E lo sanno, ovviamente, i suoi avversari, e più in generale chiunque conservi il lume della logica.
Ma lo dicono in pochissimi. Perché che Berlusconi sia bugiardo è considerato un fatto endemico della scena politica, un’eccentricità del suo carattere, una forzatura retorica serenamente metabolizzata. Come se dieci milioni fosse uguale a cinque o a due o a uno. Personalmente, temo molto l’assuefazione, che è l’ingrediente fondamentale del conformismo. E dunque mi piace ripetere, con quieta allegria: dieci milioni di firme ai gazebo sono solo una ridicola bugia. Bugiardo chi la ripete, sia esso politico o giornalista. Bugiardo, bugiardo, bugiardo. Dieci milioni di volte bugiardo”

Problemi? Compra un Silvio

Silvio sa come gestire la comunicazione, lui che per primo ha capito che la politica si può vendere come un prodotto, lui che da tempo ha capito che ciò che conta non è il prodotto, ma la sua risonanza.
Con una strategia studiata a tavolino, Berlusconi strappa definitivamente con gli alleati avviando una vertiginosa fuga in avanti con l’annuncio della nascita del Partito del popolo della libertà. Fumo, il cui risultato è invecchiare la sua “strategia della spallata”, e presentarsi come novità politica, posizione provilegiata dalla quale può permettersi di aprire al confronto sulla legge elettorale evitando la trappola di Fini e Casini.
E come già accaduto più volte, qualsiasi cosa si dirà contro di lui non farà altro che fare il suo gioco, vista l’inclinazione tutta italica alla seduzione carismatica del potente populista. C’è solo da augurarsi che il numero di persone sedotte da questo “nulla” che Berlusconi vuole venderci diminuisca sempre di più. Davvero non possiamo più permetterci di giocare a rimpiattino con i nostri stessi problemi.