Cercavo una buona occasione per tornare a scrivere sul blog, e me l’hanno fornita Vincos e Markingegno di Digital PR, che molto gentilmente mi hanno invitato all’anteprima per blogger di “State of Play”.
Sono arrivato alla saletta privata della Universal sulle ali di uno sturm & drang che si è abbattuto sulla capitale verso le 20 di ieri sera, portando con me uno spritz bevuto troppo in fretta, e un ottimismo sulla qualità del film parzialmente mitigato dalla preoccupazione di ritrovarmi di fronte alla classica americanata che finisce con l’inseguimento-e-conflitto-finale nel garage, ai docks, o in qualche capannone/magazzino. A dirla tutta l’inseguimento nel garage nel film c’era, ma non quando te l’aspetti, e con esiti tutt’altro che scontati. Che poi è la cifra del film: un prodotto d’intrattenimento di ottima fattura, con bravi attori, bella regia, e sceneggiatura non ricavata da qualche template prefabbricato, ma scritta con attenzione e mestiere, e con svariati risvolti anche di un certo peso.
Il film è incardinato su un’indagine giornalistica di una complessa situazione che vede coinvolto un deputato (Stephen Collins, interpretato da faccia di bronzo Ben Affleck al di sopra dei suoi standard consueti) alle prese con un’inchiesta governativa su un’agenzia di sicurezza privata (pensare alla Blackwater non è azzardato). L’indagine del Washington Globe viene avviata alla morte della collaboratrice (e amante) di Collins e affidata a Della Frye, blog editor che “costa poco, è ambiziosa, e produce tantissimo” (la bella e bravina Rachel McAdams), ma si aggancerà rapidamente ad un’indagine su un altro omicidio solo apparentemente scollegato, condotta da Cal McAffrey (un grande Russel Crowe) ruvido giornalista “di strada” e amico di vecchia data di Collins.
Sullo sfondo (e nell’intreccio), la crisi del giornale (e di tutti i giornali), il bisogno di far soldi in fretta rischiando lo scandalismo pur di bruciare le altre testate, e il diritto di cronaca che diventa dovere di cronaca quando il bivio è fra i sentimenti e il proprio mestiere (e qui evito lo spoiler, se ne riparlerà).
Il film riesce ad non essere didascalico nè manicheo nonostante i temi, padroneggia i riferimenti del classico cinema di genere, e trova un buon bilanciamento fra esigenze narrative e complessità dell’intreccio, con un risultato godibile e non scontato che vale la visione.
Chicca del film, l’utilizzo di due diverse camere Panavision – una classica 35mm pellicola per le scene in esterni e del mondo giornalistico, e una Genesis digitale per le scene del mondo politico, scelta a cui lo spettatore probabilmente non fa caso (io l’ho letto prima, e comunque non ne ho preso coscienza durante la visione), ma che ha certamente un peso nell’equilibrio formale del film.