11 settembre

Bloggavamo l’11 settembre

Da otto anni a questa parte, ogni anno l’11 settembre mi vado a rileggere velocemente questa paginetta di post dedicati all’attacco agli USA, scritti sul mio blog tra l’11 e il 14 settembre 2001. Sono poco più che banali twittate, ma a me rileggerli fa sempre un forte effetto.

L’internet della crisi (reloaded)

Il mio post sulla crisi di Internet è nato il giorno prima del post di Zambardino, che ha scatenato una ridda di commenti qui a Urbino (dove mi trovo al momento) a partire dall’intervento di Tombolini al barcamp anticipato da questo suo post.

Nonostante la mia riflessione fosse molto meno allarmata e molto più pratica, in quanto sostanzialmente orientata ad un necessario cambio di mentalità rispetto alla progettazione su web, la considero comunque un contributo al dibattito che si è scatenato, ed aggiungo due umili parole: attenzione a non fare lo stesso errore degli investitori di borsa. Da queste parti (e chi c’è passato 7 anni fa lo sa) il panico brucia tutto in poche settimane.

Calma, please.

L’internet della crisi

A chi come me porta a casa la propria pagnottella quotidiana grazie ad Internet, e che magari come me ha vissuto drammaticamente il tracollo della new economy dopo l’11 settembre 2001, qualche brivido sulla schiena per il crollo delle borse mondiali e l’inaugurazione di un periodo di vera e tangibile recessione non sarà mancato. Certo, siamo lontani dalla impressionante e ridicola bolla di fine anni 90, quando c’era chi riusciva a farsi pagare 500.000 Lire al giorno per fare pagine HTML con le tabelle e Dreamweaver, o faceva margini del 600% sui progetti web. Tuttavia non è facile scrollarsi di dosso la sensazione di “costruire il superfluo”, in un momento in cui si intravedono obiettive difficoltà su aspetti molto più concreti della vita quotidiana delle persone e delle imprese. Questa riflessione, figlia legittima dei titoloni a segno meno sui quotidiani e i telegiornali nazionali, si è poi trasformata in una prima, e poi in una seconda domanda: com’è cambiata la rete dopo il crollo del 2001? E adesso invece cosa accadrà?

A distanza di sette anni, abbiamo capito che quello che oggi chiamiamo web 2.0 è in larga parte figlio della crisi del 2001. Fine dei budget multimilionari per progetti di scarso valore, fine delle supermega web agencies dirette da ricchissimi dandies simil-rockstars, nascita e sviluppo di standard aperti, piattaforme open source, e nascita di un uso attivo della rete da parte degli utenti, sono solo alcuni dei vettori che hanno portato fin qui. Non una vera rivoluzione, ma certamente un riequilibrio dei valori in campo. E all’alba di un nuovo tracollo, o comunque di un momento molto difficile, è possibile un accelerazione improvvisa verso una seconda austerity, basata sulla valorizzazione di quanto già esistente (e magari poco sfruttato) piuttosto che la spesa insostenibile di nuovi mostri da costruire from scratch. Senza quindi voler fare l’oracolo della domenica, provo a buttar giù quello che ritengo potrà essere l’atteggiamento più intelligente, in epoca di crisi, per chi si occupa di attività su Internet:

Qualità
Inutile girarci intorno: oggi esiste una consapevolezza del mezzo sufficiente per pretendere qualità percepita, riflessa, o reale che sia, ma comunque qualità. Uno spaventapasseri travestito da social network non incanta più nessuno già ora, figuriamoci l’anno prossimo.

Zero investimenti in sviluppo tradizionale
Oggi è disponibile open source tutto quello di cui si ha bisogno per sviluppare progetti per il web di buona qualità. E come i funghi nel bosco, o i pesci nel mare, il valore è in chi sa pescare, trovare, raccogliere e adattare. Vale sempre meno la pena imbarcarsi in avventure di sviluppo di architetture complesse, quando c’è un mondo intero connesso online, che seleziona, scarta, e costruisce cose che funzionano ad uso di tutti e che possono essere ricombinate con risultati interessantissimi.

Esternalizzazione verso servizi free o low-budget di tutti i costi infrastrutturali
Certo, c’è un limite a tutto, ma per attività di basso, medio traffico tutti gli host di contenuti multimediali (Blip, youtube e simili), e servizi di hosting web tradizionale che con pochi dollari forniscono storage, banda, ambienti di sviluppo, db e gestione domini vanno benissimo. Scaricate un problema, e pensate solo a inventare.

Personalizzazione sartoriale
Gli strumenti disponibili sottraggono tempo e fatica che possono essere reinvestiti nella cura dettagliata della personalizzazione. Che poi è il vero valore aggiunto.

Bassi margini
Inutile pensare di arricchirsi con la rete. Molto meglio tenere un regime di margini bassi ma costanti, che rappresentino il giusto valore del proprio lavoro al netto dei costi vivi. Tentare di fare il colpaccio, oggi come oggi, pare veramente una stupidaggine che rischia di bruciare clienti e basta.

Creatività della crisi
da che mondo è mondo, la migliore creatività viene fuori in presenza di limiti enormi. Datemi tutto quello che mi occorre, e probabilmente farò qualcosa di banalissimo. Datemi tre oggetti, e probabilmente ne trarrò un’opera d’arte. Mai come in questo momento la creatività della crisi diventa fondamentale. Massimo risultato dal minor sforzo.

Ottimizzazione
Tanto più un progetto viene curato con intelligenza, tanto meno costerà dopo. Lavorare bene sulle parti iniziali, sull’architettura delle informazioni, e sull’interaction design, vorrà dire non dover ritornare mille volte sugli stessi elementi solo perchè sono stati progettati occhi a terra e non si è stati in grado di vedere il disegno complessivo.

Temi caldi 1 / Vicky Gitto e l’idea della madonna

Premesso che non mi interessa (anzi mi disturba) la carta velina dell’indignazione a buon mercato, e quindi non vedo nulla di male nell’usare strumenti particolarmente provocatori per comunicare qualcosa di interessante, va detto che Vicky Gitto, nel suo dichiarare l’11 settembre “un’idea creativa della madonna” confonde sicuramente il mezzo con il fine. Al Qaeda ha semplicemente usato uno strumento estremamente rumoroso, ma aver cambiato la storia non è comunque sufficiente: non è stato raggiunto un obiettivo di comunicazione. In questo senso, le grandi dittature totalitarie (quelle che Debord nella Società dello Spettacolo chiamava “lo spettacolo integrato”) hanno raggiunto risultati migliori.
Vorrei solo aggiungere che, forse, la sua è stata un’idea creativa della madonna, visto quanto se ne sta parlando .. 😉

Tra i video dell’advcamp girati da noi di dolmedia c’è anche l’intervento di Gitto.

Ancora la Storia

Sto scrivendo poco. Un po’ perchè ho parecchio da fare, un po’ perchè ho poco da dire. Già. Lieto di vedere che La Pizia è tornata on, se ne sentiva la mancanza, e già propone argomenti su cui vale la pena di riflettere: “Chiacchiero con i miei amici e mi sembrano tutti sul punto di scoppiare, con una voglia di cambiare che aspetta solo il pretesto giusto. L’orizzonte e’ decisamente cambiato, non c’e’ nulla da dire, che la guerra scoppi o che tutto rientri le cose saranno diverse. Perche’ le vogliamo diverse“.Ha ragione, ragazzi, c’è poco da fare. Ma credo del resto che sia normale. Il pretesto, e insisto con un tema a me molto caro in questi giorni, è la storia che torna violentemente, fredda come uno schiaffo d’acciaio sulla faccia. Fredda come camminare in una notte di neve in un luogo sconosciuto, pensando che non si riuscirà mai più a tornare a casa.

Dietrologia, anyone?

Ci sono troppe cose che sfuggono alla umana quotidiana comprensione. Non riesco a farmene una ragione, è dura ammetterlo ma io non credo che la vicenda di New York sia semplicemente un attentato organizzato da Bin Laden e compagnia cantante. Non ci credo. Non mi piace, non mi è mai piaciuto fare il dietrologo, ma la sensazione che si stia sviluppando la seconda fase del famoso NWO (New World Order, processo iniziato nel 1989) non me la leva nessuno. Si sono dimostrati tutti troppo pronti, e in più, strani scenari di normalizzazione, controllo e censura si stanno diffondendo a macchia d’olio. Poteri speciali. “Questa campagna avrà dei costi”. Richiesta di comprensione e collaborazione da parte degli ISPs. Spero davvero di sbagliarmi.

New York. New York. New York.

Ci ho provato. Ho provato a distrarmi, a fare altro, a parlare di altro, ma veramente non c’è niente da fare. Non c’è amico, parente, canale televisivo, giornale, blog, che non parli di New York e dei suoi risvolti. E più si ascolta, più ci si spaventa. “Una lunga guerra”, si diceva ieri sera durante lo speciale di RaiTre. Lunga, non convenzionale, difficile, sanguinosa. E allora si cerca di leggere, capire, razionalizzare, anche prepararsi, se vogliamo. E allora, nel corso delle mie peregrinazioni mediatiche, ho trovato questo articolo scritto da un afgano-americano, che probabilmente è la cosa più chiara ed esaustiva che io abbia letto o ascoltato negli ultimi giorni.Buona domenica (e un grazie a Evan per la segnalazione dell’articolo).

The Fray dedicato all’11 settembre

Straordinaria versione speciale di The Fray dedicata alla tragedia americana. Davvero merita una visita.

Tre minuti di silenzio

Vorrei pensare a qualcos’altro, ma certo il plumbeo cielo romano non aiuta. Stamattina prima di uscire seguivo un programma su Rai Educational in cui Italo Moretti parlava del dramma desaparecidos argentini; pensavo a quanti drammi, quante tragedie dimentichiamo quotidianamente, alla faccia della Storia. Ancora, la Storia. Che torna violentemente. Ora si sentono trascorrere i minuti, i silenzi pesano più del solito, hanno un significato. Leggevo il post di Ketty su blogo, e pensavo che sì, è maledettamente vero, la vita ha dei significati molto diversi per persone molto diverse da noi.Un saluto ad Antonio, oggi è il suo compleanno, e complimenti per la bella immagine postata sul suo blog, che ci ricorda i tre minuti di silenzio oggi alle 12:00.

Il ritorno della storia

Ieri sera riflettevo su quanto gli eventi influiscano sul tessuto culturale complessivo inteso come somma di migliaia di piccole molecole di stati d’animo, frammenti di attività quotidiana, riflessi, interpretazioni. Gli eventi di questi giorni ci stanno insegnando che viviamo (abbiamo vissuto?) in un epoca in cui la Storia, semplicemente, non esiste (non esisteva?). Come si genera cultura in una civiltà privata della Storia?

Parecchi anni fa (1984, molto prima di Naomi Klein), Frederic Jameson introduceva il concetto di Post Modern nel volume “Il post moderno, o la logica culturale del tardo capitalismo”: “…Si può dire che la cultura del simulacro prenda vita in una società in cui il valore di scambio si è talmente generalizzato da cancellare la stessa memoria del valore d’uso, una società in cui, come ha osservato Guy Debord con una frase straordinaria, ‘l’immagine è diventata la forma finale della reificazione’ …”.

La nostra generazione è cresciuta immersa in questa non-cultura del simulacro. Chi si ricorda le famose notti della Guerra del Golfo? La guerra virtuale, in cui le bombe sono verdi fosforescenti e portano il marchio della CNN. Oggi qualcosa si è spezzato; il confine tradizionale tra il mondo occidentale privo di Storia e il resto del mondo si è spostato. Quante volte abbiamo osservato i due aerei scontrarsi con le twin towers? E ogni volta abbiamo cercato di “sentire” sulla pelle, ma non bastano cento volte, mille volte, diecimila volte.

Eppure sappiamo, sappiamo che questo dolore “fisico” è più vicino, percepiamo la “verità” di questo dolore, anche se ancora in modo indistinto, confuso. E forse cerchiamo (nostro malgrado), di simulacrizzare qualcosa che non si può simulacrizzare. E, tanto più la geografia avvicina l’uomo al luogo dell’evento, al luogo dove la Storia è tornata, tanto più l’uomo percepisce la “verità” di questo dolore.

E’ questa, forse, la tragedia più grande con cui ci stiamo confrontando: la Storia è tornata, e noi non ce lo aspettavamo.