In questi giorno sto leggendo “The filter bubble” di Eli Pariser, già fondatore di Avaaz.org, la cui tesi è che l’introduzione della personalizzazione dei risultati di ricerca di Google, e i flussi di contenuti personalizzati di Facebook e Twitter, stanno delineando un’infosfera personale, filtrata e ristretta che potremmo non percepire come tale. Il rischio è che l’abitudine e la perdita di cognizione del filtro a monte ci restituiscano l’equazione realtà personalizzata = realtà reale. Se quindi dal lato broadcast la lettura dei quotidiani partigiani o il livellamento verso il basso delle tv generaliste escludono di fatto il confronto con idee nuove o semplicemente “altre”, dal lato crowdcasting l’ecosistema internet che si direbbe aperto per definizione rischia di essere così tagliato su misura da escludere idee e suggestioni alternative – con il rischio aggiuntivo di convincerci nel tempo che ciò che leggiamo sui “muri” dei nostri amici è tutto ciò che esiste e che c’è da sapere.

Ho letto quindi con grande interesse il post di Fabio Chiusi “Le elezioni non si vincono in rete”, che incrocia due studi sull’impatto della rete nella società. Secondo il primo studio, realizzato dal Pew Research Center, e riguardante l’impatto delle strategie “social” sull’orientamento politico, solo il 16% degli oltre 2.250 iscritti sostiene di aver cambiato parere su una questione politica dopo averne discusso o letto su un social network. Addirittura, il 9% dichiara di essere meno, e non più, politicamente “coinvolto”. Leggendo questi dati alla luce delle considerazioni sul filtro di Eli Pariser, e incrociandoli con il Web Index 2012 (complesso indicatore sulla penetrazione del digitale nella società), che assegna all’italia 47,33 su 100 contro il 92,54 su 100 degli USA, non è difficile trarre almeno qualche conclusione aristotelica sul reale peso della politica in rete, in Italia.

Alla luce di ciò, mi pare abbastanza evidente che chi vuol fare politica ragionata in rete, da un lato deve farsi alfiere dell’accorciamento dell’enorme gap culturale, prima ancora che tecnologico, che taglia fuori dal dibattito online una enorme fetta di elettori. Dall’altro, deve (ma guarda un po’) mettere l’utente al centro, ed elaborare strategie di conversazione sempre più micro-profilate, per aggirare i filtri e rendere il proprio messaggio comprensibile a più livelli.