Quattro giorni trascorsi in casa per colpa di un influenzetta mi sono stati utili per constatare ancora una volta che, a meno che non si abbia materialmente bisogno di manovrare macchine specifiche e non connesse alla rete, o che non si debba discutere vis-a-vis con un cliente, ormai c’è davvero pochissimo che costringa alla presenza fisica in ufficio.
Chiunque abbia avuto modo di lavorare in epoca pre-internet sa bene quali incredibili passi avanti sono stati fatti in dieci anni, e con quale velocità esponenziale se ne continuano a fare. Gli strumenti non mancano quindi, e probabilmente la grande maggioranza delle persone desidera davvero evitare non tanto il dover essere in ufficio, quanto il dover essere tutti i giorni nello stesso posto. Ma allora come mai non riusciamo a svincolarci dal luogo fisico di lavoro?
Qualcuno ritiene sia un problema di dimensione dell’azienda. Certo, una grande azienda può avere maggiori difficoltà ad organizzare il lavoro se tutti sono delocalizzati; ma è indubbio che questo problema affligge anche (se non di più) società di media-piccola dimensione.
Qualcuno pensa sia un problema di alfabetizzazione tecnologica. Certo, gli strumenti devono essere condivisi, altrimenti cade il concetto stesso di collaborazione remota. Ma queste resistenze sono spesso ben visibili anche in società medio-piccole fortemente net-savy.
Cos’è che manca allora per liberarci dal giogo della scrivania fisica? Molto probabilmente manca una cosa che si chiama predisposizione culturale all’innovazione, ovvero un sistema fatto da tre architravi ineludibili: organizzazione, fiducia/coraggio, e orientamento al risultato/obiettivo (le ultime due riassumibili probabilmente nel concetto esteso di meritocrazia). E mi pare di poter dire che la cultura italiana (aziendale e non solo) si basa esattamente sui tre architravi opposti (disorganizzazione, diffidenza, e orientamento al tempo di lavoro), che peraltro si annodano l’uno con l’altro in una terribile spirale viziosa.
cri
Settembre 27, 2008 — 8:41 am
Caro Biccio,
in realta’ le grandi aziende ci stanno lavorando e anche intensamente alla delocalizzazione e il motivo per cui lo fanno e’ molto semplice: i costi degli affitti degli uffici. Le “mie” due Fortune 500 stanno entrambe andando attraverso processi di lavoro “location free” e stanno spingendo per far diventare il telelavoro una prassi, specialmente per i lavori a piu’ alto contenuto tecnologico.
Dopo 2 anni e mezzo di questa esperienza posso dirti che a me personalmente la cosa che mancava d piu’ era il caffe’ con i colleghi, la possibilita’ di curare un network che in molte occasioni si rivela essere prezioso e arricchente…e poi da casa si lavora troppo, con la scusa che tanto non perdi tempo a cercare parcheggio si finisce per dedicare al lavoro almeno un’ora in piu’ di quello che faresti andando in ufficio e questo le aziende lo sanno…oh si che lo sanno!
Abbracci dalla Svizzera!
Strelnik
Settembre 27, 2008 — 1:37 pm
Ciao Biccio, ciao Cri,
lavorare da casa (o in giro col portaile) mi garba molto perché mi mantiene viva e vegeta una certa autonomia decisionale sia nei confronti del mio tempo libero sia dei committenti.
Però.
Alzarsi un’ora dopo la mattina o mettersi alla tastiera in mutande e t-shirt non equivale certo a lavorare di meno: sono d’accordissimo con Cri quando dice che questo le aziende lo sanno; e sanno anche che il non obbligarti a un luogo fisico fisso presuppone una fiducia minima che salvaguardi sia gli interessi dell’impresa, ma anche la qualità della vita del lavoratore “dislocato”.
Lavoratore che però, come naturale “controparte”* dell’azienda, nella contrattazione con quest’ultima (del salario, della tipologia di lavoro, delle deadline, etc) molte volte è da solo, “atomizzato”: alla controparte non può che offrire il proprio curriculum e la peculiare “qualità” delle cose che sa (e gli piace e gli riesce) fare. La controparte, spesso stressata da trimestrali di cassa incombenti e dal generale fiato corto dell’economia di questi tempi, spinge fortemente sulla questione “tempo”: sulla sua contrazione in periodi sempre più random, ma intensissimi, a volte sbriciolati su tutto l’arco delle 24 ore in una disponibilità “digitale” che, anche se congruamente monetizzata, porta a un impoverimento del proprio tempo di vita. Anche se sei a casa tua o in Spagna in bicicletta ( wi-fi permettendo).
Qui mi fermo, ma potrebbe entrare in gioco il co-working (http://en.wikipedia.org/wiki/Coworking) che mi piace parecchio perché rimette in moto la dimensione collaborativa orizzontale tra lavoratori “freelance”; vediamo che/se si può fare.
Saluti a voi, sorelle e fratelli web-worker **
* perché il lavoratore non è l’azienda. Il capitale non è il lavoro, sono due cose distinte: esiste un’alterità.
** possibile sito utile: WebWorkerDaily (http://webworkerdaily.com)
Chiara
Settembre 28, 2008 — 2:30 pm
io sono una di quelle anime belle che si è lasciata sedurre dal prospetto di non dover più mettere piede in un ufficio: lavoro da casa da due anni. la qualità della vita migliora fino a un certo punto: lavorare in pigiama o con le mollette in testa ha anche i suoi svantaggi (si lavora sempre, si lavora in orari non canonici, e di conseguenza la vita sociale e privata ne risente. provo a incontrarmi con i miei colleghi almeno una volta al mese, ma spesso non si può, e mi rendo conto che ce ne sono alcuni di cui non conosco nemmeno il viso. a volte è un po’ alienante, e la responsabilità è anche dell’azienda. con un po’ di comunicazione in più (o più curata) probabilmente non mi sentirei così sola. baci!
Steve McQueen
Ottobre 2, 2008 — 1:23 pm
Pian pianino qualcosa si sta muovendo, anche se in molte aziende tradizionali c’è sempre diffidenza.