Possono convivere il “paese per startup” e il paese di Sulcis, Ilva, Fiat, Finmeccanica e delle migliaia di operai a rischio lavoro? Ci pensavo oggi, leggendo il post di Luna sull’ISDAY, e sui volti da startupper.
L’Italia è un paese fermo da decenni, nel corso dei quali una ingarbugliata ragnatela di clientelismi ha garantito la sopravvivenza di vari comparti fuori mercato, senza alcun tipo di piano industriale in grado di guardare in faccia con coraggio il contesto internazionale, e definire investimenti mirati per incentivare nuovi settori e riconversioni. E ora, anno 2012, per questo non-modello, siamo completamente fuori tempo massimo. Ma mi è difficile pensare che la soluzione al problema sia smontare l’Italia in bad company e new company, la prima da lasciare al suo destino pietoso, e la seconda da sostenere cucendo provvedimenti su misura. Nella visione di molti invece, espressa o meno, traspare la forte tentazione di mettere quell’Italia invecchiata e assistita sotto al tappeto, dimenticarla, come facesse parte di un passato molto remoto, un pesante fardello da scaricare prima possibile e in qualunque modo. E a forza di parlare di innovazione, si rischia di dimenticare le fondamenta che tengono in piedi il paese.
Non credo che la soluzione al problema Italia passi dal tracciare una linea di demarcazione fra acciaio e digitale, quanto piuttosto fra capitale produttivo e improduttivo, tra il lavoro – giovane startupper universitario, piccolo e medio imprenditore tradizionale, maestranze da far evolvere nei rispettivi settori – e la finanza, il velinismo, il soldo facile.
Ovvio che il tutto debba poi essere inserito in un quadro di incentivazione di settori a più facile penetrazione del mercato globale, attraverso riconversioni, sgravi fiscali e altre misure, ma senza mai perdere di vista la discriminante principale fra chi produce valore, e chi produce speculazione.
La foto è di Roberto Serra, tratta dal gruppo Facebook Sostegno ai minatori Carbosulcis