Ieri sera riflettevo su quanto gli eventi influiscano sul tessuto culturale complessivo inteso come somma di migliaia di piccole molecole di stati d’animo, frammenti di attività quotidiana, riflessi, interpretazioni. Gli eventi di questi giorni ci stanno insegnando che viviamo (abbiamo vissuto?) in un epoca in cui la Storia, semplicemente, non esiste (non esisteva?). Come si genera cultura in una civiltà privata della Storia?

Parecchi anni fa (1984, molto prima di Naomi Klein), Frederic Jameson introduceva il concetto di Post Modern nel volume “Il post moderno, o la logica culturale del tardo capitalismo”: “…Si può dire che la cultura del simulacro prenda vita in una società in cui il valore di scambio si è talmente generalizzato da cancellare la stessa memoria del valore d’uso, una società in cui, come ha osservato Guy Debord con una frase straordinaria, ‘l’immagine è diventata la forma finale della reificazione’ …”.

La nostra generazione è cresciuta immersa in questa non-cultura del simulacro. Chi si ricorda le famose notti della Guerra del Golfo? La guerra virtuale, in cui le bombe sono verdi fosforescenti e portano il marchio della CNN. Oggi qualcosa si è spezzato; il confine tradizionale tra il mondo occidentale privo di Storia e il resto del mondo si è spostato. Quante volte abbiamo osservato i due aerei scontrarsi con le twin towers? E ogni volta abbiamo cercato di “sentire” sulla pelle, ma non bastano cento volte, mille volte, diecimila volte.

Eppure sappiamo, sappiamo che questo dolore “fisico” è più vicino, percepiamo la “verità” di questo dolore, anche se ancora in modo indistinto, confuso. E forse cerchiamo (nostro malgrado), di simulacrizzare qualcosa che non si può simulacrizzare. E, tanto più la geografia avvicina l’uomo al luogo dell’evento, al luogo dove la Storia è tornata, tanto più l’uomo percepisce la “verità” di questo dolore.

E’ questa, forse, la tragedia più grande con cui ci stiamo confrontando: la Storia è tornata, e noi non ce lo aspettavamo.