Nel 1988 valeva la pena sdraiarsi a dormire nei corridoi dei treni rapidi per andare in Europa. L’aereo costava caro, e l’inter-rail aperta rendeva possibile a noi non-ancora-ventenni girare senza limiti in quelle terre sconosciute. E noi volevamo andare a Berlino.
Scegliemmo di passare da Hannover, da dove si poteva prendere un treno che, una volta passato il confine con la DDR, non si sarebbe mai fermato fino ad arrivare a Berlino Ovest. A vederlo sulla cartina sembrava una passeggiata di quattro dita. A vent’anni il mondo ci sembrava piccolo anche senza Internet.
Arrivati a Helmstedt–Marienborn, avevo i Joy Division nel walkman. Fuori c’era la neve. Restammo fermi a lungo, finchè dal biancore opaco della nebbia vedemmo spuntare dei militari. Avevano lo stemma della DDR con il martello sui loden verdi. “Vopos”, ci dissero dei grigi personaggi seduti con noi in treno. “Volkspolizei”.
I Vopos salirono sul treno, e iniziarono a setacciarlo, chiedendo documenti, facendo domande, redigendo visti per l’accesso di solo transito nella DDR. Ricordo gli occhi di ghiaccio di uno di loro. Ci guardò a lungo, a me e a Massimo. Cercammo di capirci in un inglese stentato, e alla fine ci fecero il visto per proseguire. Il treno ripartì, e notai che i Vopos erano rimasti sul vagone. Presidiavano tutte le uscite, controllavano chiunque si alzasse anche solo per andare in bagno. Per il resto rimasero immobili per 300Km.
Tenemmo a lungo il naso attaccato al vetro. Fuori c’era un mondo sconosciuto, fatto di Trabant parcheggiate sotto case modeste, casermoni. Nessuna insegna luminosa, nessun cartellone pubblicitario. E al calar del sole, paesi e cittadine sempre più buie. Arrivati alle porte di Berlino, il treno entro in un primo checkpoint. Fece scendere i Vopos, e poi proseguì attraverso una serie di barriere metalliche che si aprivano e si richiudevano. Davanti a noi si aprì una citta occidentale, con le luci e i colori a cui eravamo abituati. Probabilmente avrei dovuto capirlo prima di partire, ma solo allora, in quel momento, mi resi conto che Berlino Ovest era completamente circondata da un muro che la teneva separata dal resto della DDR. Una città che viveva libera all’interno di un muro, e uno stato che viveva segregato, all’esterno del muro.
marcoboh
Novembre 9, 2012 — 2:33 pm
io ci andai appena in tempo, nell’agosto del 1989. in treno, appunto, e l’esperienza fu esattamente la stessa.
la cosa più strana, una volta là, fu l’idea che ci saltò in mente, che, almeno a ovest, tutto era pronto per la riunificazione: perfino le stazioni fantasma della metro erano pulite come se fossero alla vigilia della riapertura.
ma l’esperienza di essere come in un’isola occidentale fu ancora più forte il giorno che passammo a est: dove il lato verso il muro era come volutamente fatto dimenticare (la cartine della metro dell’est non riportavano nulla, dall’altro lato); e in effetti la città sfumava nel nulla verso ovest.
al rientro “di qua” una ragazza spagnola aveva le lenti a contatto, mentre sul passaporto la foto era con gli occhiali: e non volevano farla passare. una signora anziana, che sapeva il fatto suo, le prestò i propri occhiali, e via tutti.
indimenticabile.
ubu
Novembre 29, 2012 — 4:42 pm
Fantastico.
(Io avevo scritto qui: http://www.lavitaistruzioniperluso.com/article/7/berlino solo che il passaggio ad altro server ha da anni distrutto tutte le accentate del vecchio blog, rendendolo illeggibile. Perdono.)
Pasquale Reese
Agosto 7, 2013 — 12:30 pm
l’Age du Fer (Paul Delvaux) C’è una stazione, e un treno che parte. Realismo, dettaglio, precisione. Però, in primo piano, c’è una donna. Distesa su un letto, forse un sofà, che in teoria, in una stazione non dovrebbe esserci. Porta un cappello con le piume che sa di grand’operà. Soprattutto, è nuda. Ha un braccio sollevato verso destra, la mano distesa come se salutasse qualcuno in un gesto a metà, come se il gesto arrivasse in ritardo, e la persona cui è diretto se ne sia già andata. Ma poiché è rivolto di lato, è difficile pensare che quella persona sia sul treno che se ne sta andando. Nell’espressione non c’è rammarico, rimpianto o tristezza. C’è una specie di assorta malinconia, come se in fondo il gesto non fosse veramente importante, ma una specie di riflesso automatico fatto mentre il pensiero se ne sta da un’altra parte. Quello che conta, credo, è il contrasto tra la nudità della donna, che richiama alla natura, alla fecondità, pur non essendoci in lei alcun ostentato erotismo né alcuna volontà apparente di seduzione, e la tecnologia, il progresso. Tra i due mondi non sembra ci sia alcun punto di contatto. Come se l’affanno della costruzione e del progresso non potesse per alcun motivo al mondo essere una risposta alla sua malinconia. Come se l’organizzazione del mondo così com’è non permettesse di trovare una collocazione alla donna.